Ho appena terminato la lettura del libro Preferirei di no – Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, di Giorgio Boatti. Si tratta di un saggio e come un saggio è scritto.
Ho trovato il contenuto estremamente interessante ma, confesso, lo stile della narrazione vagamente antiquato, spesso noioso e un po’ soporifero. Direte: “Certo. Cosa pretendi? È un saggio!”
Eppure ciò che ci racconta questo libro è davvero affascinante: gli intrighi di potere, le rivalse degli invidiosi, la furbizia di chi segue la marea per restare a galla e, contemporaneamente, il rigore e il senso morale di chi non si piega nemmeno di fronte agli sberleffi di colleghi e, talvolta, di parenti e amici.
Mi domando, dunque, perché un saggio debba necessariamente essere noioso. Forse (ma io non sono una scrittrice né una saggista, quindi prendete con le pinze la mia considerazione), un racconto fluido, come se si fosse trattato di un romanzo, in cui si intrecciano le vicende professionali e di frequente anche personali di questi professori, sullo sfondo di un Paese soffocato dal Fascismo e dalle leggi liberticide, avrebbe avuto ben altro respiro.
Leggendolo, mi sono tornate alla mente le meravigliose lezioni di Storia dell’Architettura tenute dal Prof. Giulio Pane presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Napoli Federico II, che seguivo da matricola e di cui spesso sento la nostalgia. Spiegando l’evoluzione nella critica storica ci raccontò dello storico Ranke, che a metà Ottocento spiegò che, a suo avviso, il compito dello storico fosse di presentare i fatti “wie es eigentlich gewesen”, cioè come questi erano andati. Insomma, una sorta di lista della lavandaia in cui lo storico non deve inserire il proprio giudizio personale, dimenticando che è impossibile non inserire un giudizio, già solo nella scelta dell’argomento da trattare o di quale documento proporre o nascondere, per quanto privo di commento.
Ecco, questo saggio mi ha fatto tornare in mente Ranke. Peccato, perché la storia poteva e può essere avvincente.