L’antidoto uccide più del veleno.

È una strana cosa il dolore. Non sempre si manifesta allo stesso modo. È un compagno mutevole, che si traveste ogni volta in maniera diversa, tanto da rendersi irriconoscibile anche a chi lo prova. Ma è lì. È lui. Anche quando non lo riconosci.

Alla notizia della sua morte, incredibilmente non provai nulla. Ma poi la vidi. Una splendida statua di cera con le sue sembianze. Era lei, mia sorella. Eppure non era davvero lei. Era solo un vuoto involucro con le sue sembianze. La vidi, così bella. Il sopracciglio sinistro leggermente sollevato, come a dire: “Ve l’ho fatta un’altra volta, vi ho giocato un’altro scherzo e voi ci siete cascati“. Sembrava sorridere sotto i baffi. E le mani bianchissime e curate come non mai incrociate sul grembo in una posa falsamente naturale, erano rigide come quelle di un manichino. Poi vidi i segni, mascherati quanto più possibile: l’autopsia. E improvvisamente, lì, davanti alla sua bara nell’asettica camera ardente vuota, in cui solo i miei genitori, mio fratello ed io la guardavamo attoniti, è arrivato tanto improvviso quanto subdolo. Mi ha sferrato un pugno nello stomaco, mi ha afferrato i polmoni fino a farne uscire tutta l’aria, fino a farli bruciare. Mi ha stretto la gola in una morsa d’acciaio e le lacrime sono arrivate come un’onda di piena, mentre mi ostinavo a cercare di non piangere e le tonsille si gonfiavano per lo sforzo. Ma alla fine ha vinto lui e mi ha travolta. Era il dolore. Era arrivato. E da quel momento ha continuato a sorprendermi all’improvviso, quando meno me lo aspettavo, facendomi sussultare in singhiozzi violenti, talvolta silenziosi, tirandomi fuori già in pochi istanti una quantità di lacrime che nemmeno credevo potessero essere prodotte da un essere umano in un’intera vita. E poi lentamente andava via, lasciandomi spossata, col naso, gli occhi e il cuore rossi e gonfi di dolore. E il mio corpo aveva una sola arma per reagire: la narcolessia. Mi addormentavo ovunque, mentre gli altri parlavano, dormendo profondamente. Questa fase così acuta non è durata a lungo, forse una decina di giorni. Ma il dolore era sempre lì, come un condor appolaiato sulla mia spalla pronto a beccarmi il collo, a cercare il mio petto e i miei occhi. Ma ho iniziato a fingere che non esistesse, lasciando spazio alle lacrime solo in solitudine, pretendendo da me stessa e dai miei familiari, inclusa mia madre, distrutta, che fossimo forti e reagissimo. Per un anno il mio cuore ha fatto brutti scherzi, con battiti anomali che talvolta mi lasciavano senza fiato. Ci ho impiegato dieci anni per riuscire a sconfiggere quel dolore quasi del tutto ma, da lontano, ancora mi osserva e mi accompagna. Anche perché qualcos’altro gli ha spalancato le porte.

È una strana cosa il dolore. Di norma ama la solitudine ma, talvolta, preferisce presentarsi in compagnia.

La gente intorno a me chiacchierava e rideva. Rideva e mangiava. Faceva abbastanza freddo, era buio ed eravamo all’aperto. Le luci della festa e dei banconi che vendevano cibo si riflettevano sulla strada scura, negli occhi e sui denti scintillanti degli ospiti presenti alla sagra. Sorridevo e chiacchieravo anche io. DriiinDriiin…. Driiin… Il telefonino nella mia borsa aveva iniziato a squillare… Una voce tesa dall’altra parte: “C’è stato un incidente. Vieni all’ospedale.” Ci precipitammo. La storia sembrava inventata, tanto era inverosimile: l’ascensore nuovo aveva fatto un improvviso salto nel vuoto dal terzo piano dell’antica palazzina, come nei film dell’orrore di quart’ordine, rimbalzando violentemente sui respingenti che avevano fatto bloccare la cabina tra primo e secondo piano. E lei, al suo interno, era rimbalzata come le palline di quei giochi che vendevano quand’ero bambina e che spaccavano i polsi. Le erano scoppiate due vertebre, si era frantumanta le caviglie, schiacciata i polmoni, aveva battuto con forza la testa. Non può essere, non è vero. La guardavo passare su una barella mentre la portavano a fare una TAC. Si lamentava “La gamba… La gamba…“. La nuca, il collo, le spalle, quel poco che si intravedeva della schiena erano coperti da un enorme ematoma viola scuro. Questa volta arrivò di soppiatto, prendendomi la testa tra le mani, soffiando scintille di brace ardente sul mio cervello.”Molto probabilmente non sopravviverà. Il midollo non è danneggiato ma l’edema – se dovesse sopravvivere – potrebbe comunque intaccarlo facendola rimanere su una sedia a rotelle. Potrebbe aver riportato danni cerebrali. Adesso la portiamo in sala operatoria per la toelettatura delle fratture alle caviglie“. Le parole del chirurgo ronzavano nella mia testa pesanti come macigni. Di nuovo l’aria aveva abbandonato i miei polmoni. Non posso perderla. Non anche lei. Tra cinque giorni sarà il primo anniversario dalla sua morte. Non anche lei. Non potrei sopravvivere. Ripetevo questo tetro mantra, seduta sulle scale del grande ospedale mentre le ore passavano davanti alla sala operatoria. Aveva a malapena iniziato a reagire alla morte della sua prima figlia, eravamo andate al cinema insieme, quel pomeriggio, con la sorella di mio padre che sembrava quasi più sua sorella. Notting Hill. È strano come certi particolari restino appiccicati alla memoria. Ed ora noi eravamo lì, rimettevamo le lancette sull’ora solare aspettando che qualcuno uscisse e ci dicesse qualcosa. “Sarà intubata e starà in terapia intensiva”. La prognosi riservata. L’attesa. La lunga attesa seduta per giorni davanti al reparto, andando a casa solo per una doccia o un paio di ore di sonno tormentato. Aveva preso di nuovo i miei polmoni e sadicamente li stringeva fino a un attimo prima di farmi svenire, per poi rilasciarli, e soffiava braci ardenti sul mio cervello. In più punti avevo la sensazione che piccolissimi fili infuocati si facessero strada dalla sommità della mia testa verso l’interno, al centro esatto. Ancora una volta le lacrime inarrestabili ma, stavolta, silenziose, lasciavano pozze ai miei piedi. Non era venuto solo. Aveva deciso di tormentarmi con maggior malevolenza e si era presentato con la sua compagna: la paura. Era lei che usava il fuoco. Il dolore mollava di quando in quando la sua presa, lasciando il posto alla speranza, per poi afferrarmi con sempre maggiore violenza e cattiveria, in un’altalena sadica, come se provasse piacere a torturarmi. Ero dilaniata, aggrappata al velo sottile della speranza che rendeva tutto più difficile, rischiando di lacerarsi ad ogni bollettino medico, ad ogni brevissimo attimo trascorso nel box dove vedevo mia madre respirare attraverso i tubi, tenuta in coma farmacologico, dove sentivo il freddo suono dei monitor e delle apparecchiature mediche senza che nessuna voce umana si udisse. Mio fratello riusciva a parlare con lei, a scherzare e sorridere, convinto che potesse sentirlo. Lo invidiavo ed ammiravo, perché io non ci riuscivo. Ero gelata dalla paura. Quasi non respiravo per timore che, se avesse sentito la mia voce, l’emozione le avrebbe provocato un arresto cardiaco, un collasso che l’avrebbe portata via per sempre da me. Entravo nel suo box quasi in punta di piedi e anche i miei occhi la sfioravano appena per timore di disturbarla, mentre cercavano qualche variazione nel modo in cui il suo petto si sollevava e si abbassava, in cui le sue dita erano poggiate sul lenzuolo, mentre cercavo una vibrazione sotto le sue palpebre chiuse. Un giorno, mentre ero lì, un improvviso fischio lungo e acuto uscì da un apparecchio… E il dolore si divertì a farsi sostituire dalla paura che si era improvvisamente tramutata in panico. Sin dal primo momento, dolore e paura si erano rivelati una coppia micidiale e spietata pronta a torturarmi fino allo sfinimento. Lui che mi guardava disgustato, con aria sprezzante e glaciale, lei che mi sorrideva beffarda ed infída, pericolosa e spietata. Eccoli lì di nuovo, sul punto di sopraffarmi del tutto: il suono acuto mi trapassava orecchie e cervello, gli aghi infuocati stavano affondando nel mio cranio, l’aria aveva abbandonato i miei polmoni, i battiti del mio cuore avevano accelerato di colpo, la testa era sempre più vuota e leggera, le gambe stavano cedendo, la vista si stava annebbiando. Una sola cosa ancora mi teneva aggrappata ad un sottile filo di lucidità: la certezza che se fossi svenuta in quello spazio stretto avrei ostacolato i soccorsi per mia madre. Volevo uscire da lì, quando arrivò un infermiere sorridente, che non si era reso conto della devastazione che stava per abbattersi inesorabile su di me… “È il segnale che ci avvisa che la flebo è vuota e va sostituita“. Oddio… L’aria lentamente si fece strada attraverso la gola, ma il cuore galoppava ancora, la testa ancora vuota e leggera, le gambe molli e la vista debole. Tremavo e, mentre guadagnavo l’uscita, cercavo di allontanare i malèfici amanti da me. Li cacciavo via attraverso le lacrime.

Aveva solo 59 anni al momento dell’incidente. Era iniziato il suo ennesimo calvario. Due settimane di terapia intensiva, sette mesi di ospedale, tre dei quali in un letto col busto d’acciaio e i fissatori esterni alle gambe, gli interventi, la sedia a rotelle e poi, poco alla volta, la risolutezza di rimettersi in piedi e imparare di nuovo a camminare, con la sua sola forza di volontà, a dispetto di tutte le più nere previsioni. E poi anni di terapie che non hanno mai scacciato il dolore, stavolta quello fisico, non meno perfido del suo gemello. Ma ce l’aveva fatta!

Il tempo passa e il dolore, esperto, allenta per un po’ la sua morsa, lenisce le ferite con la fresca acqua della vita che scorre, quasi dimentico di noi. Ma è solo una tattica. Tu lo sai che è lì, in agguato, che ti osserva da lontano, pronto a balzare fuori all’improvviso.

L’auto ci portava lungo strade assolate di un’estate che volgeva al termine ma pareva non saperlo. Era stata infuocata in ogni senso: gli incendi avevano devastato più che mai la nostra regione e le temperature erano simili a quelle di un forno. Di quando in quando un piccolo movimento agitava la superficie del mio enorme ventre e a me piaceva poggiare le mani in quei punti per carezzare, attraverso il sottile strato di cotone, epidermide e poco altro, le mie bambine. La sofferenza intensa che avevo provato per non riuscire ad avere figli era durata ben sette anni. In quel periodo, il dolore si era accanito sul mio corpo più che mai, con sciatalgie devastanti, blocchi cervicali e persino un attacco di appendicite operato d’urgenza. Quanto più era forte il patimento dell’anima, nascosto, tanto meno cercavo di mostrarlo mentre sorridevo. Quasi come se non si volesse rassegnare all’idea che non volevo dargliela vinta, si tramutava in dolore fisico. Più combattevo e più mi massacrava. Ma alla fine c’eravamo riusciti. Grazie ad estenuanti terapie, controlli, piccoli interventi, avevo potuto infine ammirare attraverso un monitor, prima che me li impiantassero, i tre perfetti agglomerati di cellule che si erano formati dall’unione delle cellule mie e di mio marito. Sapevo già che stavolta ce l’avremmo fatta, e sapevo che avrebbero attecchito tutti e tre.

Ormai era iniziato il settimo mese di gravidanza e le mie tre bambine mi avevano reso la donna più felice ed orgogliosa della Terra, come se fossi improvvisamente diventata una novella Eva: ero diventata la prima mamma del mondo. Il nostro medico, che ormai percepivo come un vecchio amico, ci aspettava sorridente per l’ecografia mensile di routine. Ormai mancava poco. Avremmo dovuto anticipare il parto di poche settimane per via dello spazio ristretto all’interno della mia pancia e del peso delle bimbe, che avrebbero reso difficoltoso il prosieguo della gravidanza. Non ci feci subito caso. L’ecografia si stava dilungando, il dottore aveva smesso di parlare già da un po’ ed il suo viso era serio, l’aria attenta e molto concentrata. Finalmente me ne resi conto. Calò un lungo silenzio. Alla fine il dottore terminò l’ecografia. “Uno dei battiti non c’è più”. Inizialmente non capii. Ma lentamente la verità si fece strada nella mia mente e nel mio cuore. “Dottore, una delle mie bimbe è morta?” – “…” – No. Non ci credo. Sarà un errore, pensai. Ma sapevo che il mio medico non avrebbe mai detto una cosa del genere se non fosse stato assolutamente certo. Ed eccolo lì, il dolore che negli ultimi sette mesi sembrava avermi lasciata in pace, ridere e prendersi gioco di me. Eravamo soli nella stanza e la sofferenza di una madre che ha appena perso la figlia non ancora nata iniziò a farsi largo attraverso le lacrime che appena iniziavano ad inumidire i miei occhi. “No! Non puoi piangere!!! Se piangi è la fine!” sentii dire al padre delle mie figlie. E così le lacrime furono ricacciate indietro e ingoiate e il dolore prese il sopravvento di nascosto. Perché egli non sempre viene da solo. È subdolo. È perfido. E talvolta si fa accompagnare dalla compassione. La compassione per la sofferenza degli altri che vivono la tua stessa sofferenza. Così cerchi di accantonare la tua, per far spazio a quella di colui che hai scelto come compagno di vita. Subito, però, a dolore e compassione si unisce il rancore. Come si può ordinare ad una madre di non mostrare sofferenza per la perdita di un figlio? E il dolore se la gode, perché tutti gli altri non fanno che accrescere e potenziare i suoi terribili effetti. E quando, dopo circa venti giorni, nacquero le tre bambine, la piccina morta subì un’inutile autopsia e fu sepolta in una piccolissima bara accanto alla zia, che aveva tanto desiderato avere dei nipotini. Il dolore fu lacerante. L’ansia, giunta anche lei a dare manforte agli altri mascalzoni, soffiava dietro il collo insinuando nelle pieghe delle vesti l’amica paura, pronta a torturarmi sulla salute delle altre due neonate, una delle quali sembrava avere problemi. E gli effetti del dolore crebbero. Erano una banda malevola: compassione, rancore, ansia, paura e il loro capo, il dolore. Ormai le lacrime erano inarrestabili, ovunque e con chiunque, sembravano dotate di vita propria e venivano fuori in quantità imbarazzanti nei momenti meno opportuni.

Le bimbe uscirono dall’ospedale dopo un paio di mesi, belle, sane e forti. Due angeli meravigliosi che, lentamente, ebbero la miracolosa capacità, con la loro sola ignara e dolcissima esistenza, di allontanare quasi completamente i malevoli compari.

Proprio quelle vite innocenti, che meritavano di essere protette da ogni mostro, fecero emergere altra sofferenza a lungo repressa. Soprusi, cattiverie, mancanza di rispetto o, meglio, di riguardo, che annullavano la mia dignità; manipolazioni, perfidia e malafede subíte furono ricacciate fuori dal dolore, che le espose come merce su un bancone del mercato. Le mie creature meritavano un mondo migliore. E se non era possibile cambiare tutto il mondo, era possibile cambiare almeno il loro. Così iniziò un altro percorso di patimenti: la decisione di iniziare una vita nuova.

Non è facile ricominciare, dare un taglio al passato. Perché quello diventa il periodo in cui il dolore sembra prosperare e trionfare. Arriva con tutti i suoi complici, e non ti abbandona per anni.

Era giunto il momento delle scelte difficili, dopo anni in cui negavo a me stessa l’evidenza di ciò che era. Avevo fatto di tutto per attirare la sua attenzione, il suo amore che all’inizio credevo assoluto. Desideravo che mi apprezzasse, desideravo che, almeno, mi vedesse. Quanto ha sgauazzato, il dolore, in tutto questo. Quanto ha scavato, come si è divertito. Fino a quando ho capito. Il problema non ero io. Ci ho impiegato dieci anni ma alla fine ho capito. Ed ho deciso di ricominciare nonostante tutto e nonostante tutti. Era giunto il momento. Le scelte difficili presero forma, e l’odio nei miei confronti diventò assoluto, mentre cercavo di fare da parafulmine per le mie figlie, subendo pedinamenti, trovando programmi spia installati sul mio computer, subendo furti del mio traffico telefonico, mentre cercavo di trovare le parole giuste per proteggere le bambine dal veleno che dal padre si riversava su di me e sulla mia famiglia colpendo, ovviamente, anche loro. E poi ci fu di peggio, ma di questo non posso parlare. Posso solo dire che ho subìto una violenza indicibile, come l’ha subìta il padre delle mie figlie ed anche loro stesse. Era il suo momento d’oro, il momento del dolore, che devastò me, le mie dolci stelle e tutta la mia famiglia. Il dolore più costante e duraturo, quello meno compreso e meno comprensibile ma non meno terribile.

I cambiamenti dovevano necessariamente riguardare anche il mio lavoro, però. Dovevo cominciare tutto daccapo. Avevo la necessità di sicurezze che l’attività professionale, tanto amata, non mi dava. Se volevo rinascere, dovevo prima morire. Ci stavo riuscendo, un poco alla volta, con fatica, sacrifici, l’amore delle mie figlie e dei miei cari. L’effetto boomerang arrivò: quel che non uccide, fortifica. Ed io ne stavo uscendo più forte di prima.

Ma la vita non lascia mai troppo spazio alle cose liete.

È una strana cosa il dolore. Talvolta, quando ormai dovresti sprofondare nei suoi abissi, ti rendi conto che ti ha talmente torturata da non farti sentire quasi più nulla.

Di nuovo toccò a lei, la mia stella polare, la persona che, insieme alle mie figlie, ho amato di più al mondo. Fumava, ed un giorno arrivò la notizia: “Una macchia al polmone. Non è operabile”. Questa volta, la sentenza era senza appello. Questa volta, la mia mente escogitò una strategia diversa: la negazione, l’indifferenza. E una droga potente, che già mi aveva aiutato a superare la sofferenza precedente: internet e i videogiochi, un rifugio dal mondo reale. Era troppo da sopportare, questa sofferenza che si intrecciava con le mie vicissitudini coniugali, così semplicemente la ignoravo, dedicandomi ad altro, incluso lo sport. La vedevo patire ma continuava a sorridere, talvolta a sperare. Ma io sapevo che non c’era speranza, nonostante le dicessi il contrario. È durata un anno. L’ultima notte ero là, nella stanza accanto alla sua, sulla poltrona, e quando la sentivo che si lamentava non entravo, perché avevo notato che si agitava di più. Per non sentirla giocavo, perché non volevo accettare che la stavo perdendo. E così l’ho lasciata sola. E i sensi di colpa non mi hanno più abbandonata ed ancora mi torturano, perché in tutto il mondo era l’unica che non avrei dovuto e voluto abbandonare. La mattina presto eravamo lì, con lei: mio fratello, mio padre ed io, ma io non c’ero davvero, perché telefonavo al medico, e non mi accorgevo che mia madre, alla fine, stava andando via. Il dolore era talmente tanto forte che gli ho sbattuto la porta in faccia. Non una lacrima, non un singhiozzo. Solo freddo in fondo al cuore. Ma nulla più. Una totale incapacità di provare emozioni. Eppure mi mancava e mi manca come l’aria che respiro, e continuerà a mancarmi sempre.

Ho smesso di andare in quella casa, nonostante ci fosse mio padre, col quale il rapporto divenne, poi, ancora più scherzoso e superficiale grazie alle barzellette scambiate via chat. Ci vedevamo in strada o a cena fuori, più o meno una volta al mese, perché nonostante l’età era sempre molto impegnato in attività mondane.

Ma un altro round era in arrivo. Il mal di schiena lo stava tormentando da un anno, per cui andava regolarmente dal medico. Forse per questo non aveva capito che la sofferenza, adesso, proveniva da una causa diversa. Si era sentito male, aveva chiamato mio fratello di notte, ed era andato in ospedale. Il fegato non funzionava più, non abbiamo mai saputo il perché, e poi anche i reni si fermarono. Era un uomo intelligente, colto, ed aveva capito: “Peccato, un po’ mi dispiace. Avrei voluto fare altre cose…”. E poi, come aveva fatto anche mia madre, fece alcune telefonate di addio, per salutare la sorella ed il suo migliore amico. Il suo supplizio è durato solo cinque giorni ma ha sofferto moltissimo. Si è spento lì, in ospedale, con la sua mano nella mia, che assistevo ancora una volta a quella stessa scena, al respiro di chi se ne va. Stavolta non mi ero concessa di estraniarmi per non soffrire, stavolta c’ero. Se n’era andato anche lui. E la nostra famiglia continuava a ridursi: eravamo rimasti in due. La mia sofferenza, però, durò poco anche per mio padre, forse perché mi stavo iniziando ad assuefare, come un veleno preso a piccole dosi che diventa un antidoto. In realtà le dosi, nel mio caso, erano state massicce, ma l’effetto è stato lo stesso. O forse sono stati i problemi di natura pratica successivi che non mi hanno dato il tempo di lasciarmi andare ad ulteriore dolore. Altra sofferenza, infatti, è venuta dalla vendita della loro casa, sotto la quale ormai non passo più…

È una strana cosa, il dolore. Quando non riesce più a intaccare la tua anima, quando non riesce più a farti soffrire, in realtà ha vinto. Perché toglie tutti i colori dal tuo sorriso.

Adesso la mia vita è in bianco e nero, il mio sorriso si ferma alle labbra, non arriva più al cuore. Niente gioia, nessun entusiasmo, se non quando guardo le mie figlie o per brevi e fugaci attimi. Faccio mille cose per non pensare, mi impegno e stanco in tante attività senza più la vitalità che ha sempre caratterizzato ogni mio gesto. La visione della caducità è ormai in ogni cosa. Adesso so che tutto è destinato a finire. Sempre. E non sento nulla più…